Angelo Licheri è l’uomo che ha rischiato la sua vita per cercare di salvare Alfredino Rampi, il bimbo di 6 anni caduto in un pozzo artesiano a Vermicino (Roma).
45 minuti sottoterra, in quell’inferno di rocce, buio e fango che il 10 giugno 1981 ha inghiottito il piccolo Alfredo Rampi a Vermicino: è il tempo in cui Angelo Licheri, soccorritore volontario, ha cercato disperatamente di salvare il bimbo caduto nel pozzo artesiano e morto a circa 60 metri di profondità dopo oltre 60 ore dall’incidente. La storia del soccorritore sardo che a 36 anni visse il dramma che lo avrebbe segnato per sempre.
Chi era Angelo Licheri e dove viveva: la biografia
Angelo Licheri è nato a Gavoi, in Sardegna, il 20 agosto 1944 sotto il segno del Leone. È stato uno dei soccorritori di Vermicino, nel giugno 1981, alle prese con il dramma di Alfredino Rampi e con il disperato tentativo di salvarlo dagli abissi di quel tunnel stretto e impervio in cui era precipitato. Licheri si è calato a testa in giù, legato a una fune, in quel pozzo artestiano largo circa 30 cm tra le campagne vicino a Frascati, e la sua storia si è intrecciata in modo indissolubile con il dramma di quel bambino di soli 6 anni finito a decine di metri di profondità senza scampo.
Angelo Licheri, ha rischiato di perdere la vita lui stesso per riportare il piccolo in superficie, mentre tutta Italia, sotto gli occhi attoniti dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini – giunto sul posto per seguire di persona le operazioni di salvataggio – restava con il fiato sospeso. Per 3 giorni e 3 notti Alfredo Rampi si è aggrappato alla vita, poi la fine. Pur senza alcuna esperienza speleologica alle spalle, Angelo Licheri ha scelto di provarci e lo ha raggiunto a 60 metri di profondità, ma senza riuscire a riportarlo con sé in superficie. Un’atroce sconfitta che lo ha segnato in maniera indelebile, nel corpo e nell’anima. All’epoca, Angelo Licheri aveva 36 anni e lavorava come autista in una tipografia di Roma…
Angelo Licheri e il dramma di Alfredo Rampi a Vermicino
Una maschera di sangue e sudore, il dolore e l’angoscia scolpiti negli occhi quasi spenti di Angelo Licheri al ritorno in superficie dopo il vano tentativo di salvare Alfredino, in quello sguardo impietrito dal saperlo ancora lì sotto, solo e senza via di scampo. È una delle immagini più celebri del soccorritore sardo che, in una foto in bianco e nero, lo vede stretto tra due ali di folla verso l’ambulanza che lo rianimerà poco dopo il suo tentativo disperato di restituire il bimbo sano e salvo ai suoi genitori, Franca e Ferdinando Rampi. Infine un mese di ricovero per le ferite riportate nell’intervento.
Sotto l’occhio delle telecamere si sono alternati accenti di speranza e schiaffi di disperazione, davanti a tutta Italia i tentativi falliti sotto i riflettori. Angelo Licheri è intervenuto dopo che anche lo spelelogo Claudio Aprile, sceso per cercare di estrarre il piccolo, aveva desistito. La sua corporatura minuta gli ha consentito di addentrarsi in quella vena spaventosa sottoterra. “Vedevo solo un budello nero – ha raccontato il volontario – con la parete di roccia e il buco che si restringeva“. Al suo arrivo in profondità, Licheri si è accorto che il piccolo rantolava. Ha tentato di agganciarlo con la cinghia, ma senza successo. Alfredo scivolava via, centimetro dopo centimetro, metro dopo metro, dalla sua mano pronta ad abbracciarlo e dalla vita.
“Vedendo che il buco del pozzo era stretto, mi sono tolto tutti i vestiti e sono rimasto in canottiera e mutande, scalzo. Ho indossato l’imbracatura e mi hanno fatto calare. Mi hanno dato qualche raccomandazione su come fare. Ho continuato la discesa fino a quando non mi sono imbattuto in una roccia, lì non passavo. Con uno stratagemma, ho sorpassato la roccia, che però mi ha tagliato la pelle dei fianchi e delle spalle, come un macellaio taglia la carne (…). Gli ho tolto il fango dagli occhi con il pollice e dalla bocca con l’indice (…). Mentre facevo tutte queste manovre, lui ascoltava e rantolava. Gli promettevo tante cose in quei momenti: che gli avrei comprato la bicicletta nuova e che sarebbe stata migliore di quella dei miei 3 bambini, piccoli come lui (il più piccolo aveva la sua età più o meno); che l’avrei portato a pescare, cercavo di incoraggiarlo in tutti i modi…“.
Così Licheri ha raccontato quei momenti terribili a TgCom24, ricalcando il contorno di un dolore sempre vivo e insopprimibile cristallizzato nelle disperate manovre che ha compiuto per agganciare il bimbo e tirarlo via da quell’abisso. “L’ho imbracato una prima volta, ho dato il segnale alla squadra per tirarlo su, ma lo strattone troppo energico ha fatto sì che la cinghia si sganciasse. Ho tentato una seconda volta la stessa operazione con un’altra tecnica, ma anche in questo caso la cinghia si è sfilata. Allora ho preso Alfredino da sotto le ascelle, ma la sua pelle era talmente scivolosa che non sono riuscito. L’ho preso all’altezza dei gomiti, ma anche in questo caso tentativo fallito. Poi con maggior forza, l’ho afferrato dai polsi e gli ho spezzato quello sinistro (…). Mi sono accorto che aveva sentito dolore e mi sono sentito in colpa. Ho pensato: ‘Dopo quanto sta soffrendo, mancava solo che gli rompessi un polsino’“.
Angelo Licheri: la vita dopo Alfredino Rampi
“Vorrei che questa tragedia restasse nel cuore di tutti, per me è impossibile scordarla“, ha detto Angelo Licheri 40 anni dopo il dramma. La sua vita è cambiata. Un presente alle prese con il diabete, che lo ha portato a uno stato di grave infermità con l’amputazione di una gamba e la perdita della vista. Il 18 ottobre 2021 si è spento, all’età di 77 anni.
Ma com’è arrivato a diventare l’uomo delle speranze nell’inferno di Vermicino? Tutto sarebbe iniziato l’11 giugno 1981, giorno successivo all’incidente. “Mi sono fermato in un bar a prendere un caffè e ne ho approfittato per comprare il giornale. Un piccolo trafiletto riportava la notizia: ‘Bambino di 6 anni caduto in un pozzo artesiano mentre giocava’. Ho lasciato perdere e sono tornato a lavorare…“. Qualcuno, osservando la sua corporatura esile, gli ha chiesto di provare. E nel corso delle ore, dopo una prima riflessione fugace sull’ipotesi di lasciare il lavoro e andare, è scattata la molla.
“Il terzo giorno non ce l’ho più fatta. Dopo una giornata di lavoro, sono tornato a casa e ho detto a mia moglie: ‘Vado a prendere le sigarette’. Invece, sono andato a Vermicino. Quando uno sente qualcosa dentro, deve farla. Non conoscevo l’indirizzo preciso, ma, a un certo punto, ho incontrato una lunga coda di macchine e ho capito di essere nella direzione giusta…“.
Così Licheri è arrivato sul posto, si è fatto strada tra migliaia di persone e ha scelto di non tornare indietro. “Sono maggiorenne, mi prendo le responsabilità di ciò che faccio, mi sono offerto e voi dovete solo accettare“, avrebbe detto a chi, a Vermicino, gli diceva di lasciar perdere. “Ho insistito nonostante i rifiuti e, vista la mia determinazione, ho potuto tentare“. Il resto è cronaca del suo viaggio nel dramma, in quel buio per cui nulla sarebbe stato più come prima.